La scelta di essere: dal condizionamento alla libertà

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L’uomo è un animale sociale. E fin qui niente di nuovo. Ma in questo codice sociale s’incorpora un’ulteriore necessità ontologica, quella di possedere un faro, un riferimento stabile, una figura o più d’una a cui attingere come fonte d’ispirazione per la propria evoluzione e per le scelte che disegnano il sentiero della vita.

Questa realtà s’impone anche quando l’individuo è persuaso della propria autosufficienza, quando reputa non aver bisogno di specchiarsi in alcun altro. Infatti, persino quando scegliamo di non calibrare il nostro comportamento su quello di un altro essere umano, stiamo in effetti modellando le nostre azioni e i nostri pensieri secondo un’ispirazione che possiamo avere incrociato.

L’atto del modellamento rispecchia la natura stessa della comunicazione. Così come è praticamente impossibile non comunicare – poiché persino il silenzio o l’inerzia trasmettono un messaggio – nello stesso modo è impensabile sottrarsi al modellamento. Infatti, persino l’atto di abbandonarsi alla deriva, di lasciarsi trascinare senza resistenza dalle correnti della vita, presuppone l’esistenza di un modello, magari percepito solo in maniera subliminale, che ha suggerito e favorito un tale percorso di disgregazione.

Ciò posto, le differenze nei risultati, quelli che scaturiscono in maniera significativa dal condizionamento ambientale che forgia i nostri comportamenti, non sono imputabili alla decisione di scegliere o meno se emulare qualcuno. Il modellamento, come abbiamo detto, avviene indipendentemente dal nostro volere. Ciò che realmente crea disuguaglianze è il soggetto o l’oggetto che selezioniamo come modello e la nostra consapevolezza di tale condizionamento.

La scelta del modello – si tratti di una persona, di un ideale o di un concetto astratto – è un fattore determinante, poiché dalla sua natura deriva l’imprinting che riceviamo e il cammino che scegliamo di percorrere. Allo stesso tempo, la consapevolezza del condizionamento a cui siamo sottoposti rappresenta un elemento fondamentale. Essa ci permette di comprendere e controllare meglio il processo di modellamento, di analizzarlo con occhio critico e, quando necessario, di intervenire per correggere o modulare la traiettoria della nostra vita.

Una delle fonti più potenti di condizionamento, spesso operante al di sotto della superficie della coscienza, proviene dalla nostra famiglia di origine. La famiglia, in modo diretto o indiretto, esercita su di noi una forte pressione a seguire determinati percorsi, a prendere specifiche decisioni, a manifestare comportamenti che, nel bene o nel male, si radicano in un modellamento molto profondo.

Il visionario cineasta e pensatore Alejandro Jodorowsky ci ha offerto una metafora illuminante a questo proposito, parlando del “cordone ombelicale” che lega ogni individuo alla propria famiglia di origine. Un cordone che, anziché recidere alla nascita, noi tendiamo a trascinare con noi per tutta la vita, portandoci a ripetere modelli di comportamento, atteggiamenti e scelte che rispecchiano quelli dei nostri genitori o del nostro nucleo familiare.

Jodorowsky sosteneva che tale cordone, se non adeguatamente riconosciuto e affrontato, può causare danni significativi nella vita di un individuo, in quanto ci rende schiavi di un passato e di un modello che non abbiamo necessariamente scelto. Da qui l’importanza, nel suo pensiero, di riconoscere questo legame, di analizzarlo e di operare un vero e proprio taglio simbolico di questo cordone ombelicale.

Questo “taglio” non implica un rinnegare le proprie radici o i propri legami familiari, ma piuttosto conquistare la consapevolezza di tali condizionamenti, di questi modelli impressi in noi. È un passaggio che ci permette di accogliere la nostra eredità, ma anche di liberarcene quando essa si rivela un ostacolo al nostro sviluppo individuale. 

È di fondamentale importanza dedicare una riflessione profonda e disincantata al pensiero di Jodorowsky, senza mettersi sulla difensiva. Una difensiva che, per ironia della sorte, emerge spesso in maniera acritica proprio a causa del condizionamento che intendiamo esaminare. Molti individui faticano a comprendere che prendere le distanze emotive dagli errori del modello familiare non equivale a emettere un giudizio severo su tale modello o a posizionarsi come avversari della propria famiglia.

Se la nostra esistenza si concretizza con uno scopo definito, non può certamente essere quello di perpetuare gli errori che abbiamo ereditato. Al contrario, il nostro fine dovrebbe consistere nel riconoscere tali errori e poi correggerli. Tale processo di correzione non può avvenire senza un atto di “potatura”, di taglio consapevole di rami secchi o foglie marce – metafore degli errori o delle deviazioni che abbiamo recepito. Solo così possiamo liberare spazio per innestare qualcosa di nuovo, di migliore, per far fiorire quelle potenzialità che danno un vero senso allo scopo per il quale siamo venuti al mondo.

Ciò richiede coraggio, ma anche una profonda consapevolezza di sé. Richiede la capacità di guardare con occhi nuovi la propria famiglia e la propria eredità, di mettere in discussione ciò che abbiamo sempre dato per scontato. Solo attraverso questo processo possiamo davvero sperare di interrompere il ciclo degli errori e di creare qualcosa di migliore per noi stessi e per le generazioni future.

È essenziale comprendere che la nostra esistenza non è un prodotto del caso, non siamo venuti al mondo perché qualcuno ha deciso per noi, costringendoci a subire “ciò che passa il convento”. Siamo qui perché lo abbiamo deciso noi stessi. Abbiamo osservato l’infinita tela della vita, abbiamo compreso i suoi intricati disegni, abbiamo intuito il suo senso profondo e, consapevolmente, abbiamo scelto. Scegliamo il nostro percorso, la direzione da seguire e il motivo per cui avanzare. Il “perché” è la chiave che accende il motore del nostro scopo. E tale scopo richiede un modello di comportamento elevato e positivo, non un modello lascivo o autodistruttivo.

Abbiamo scelto la nostra famiglia ancora prima che essa decidesse il nome con cui chiamarci. Ora, è il momento di agire in sintonia con la nostra scelta. Ricordiamoci il “perché” della nostra esistenza. Se necessario, indaghiamo, scaviamo in profondità per ritrovare quel motivo che ha dato impulso alla nostra vita.

I modelli di comportamento che scegliamo devono essere orientati verso l’evoluzione, in particolar modo quella spirituale, e non essere modelli che ci costringano a rinunciare a noi stessi, ad arrotolarci su di noi e sugli errori ereditati.

E quindi, onoriamo noi stessi, in quanto esseri spirituali in continuo divenire; onoriamo la vita, per la sua magnificenza e per il suo mistero; onoriamo il nostro scopo, che ci guida attraverso le sfide e le gioie del nostro viaggio. E, infine, onoriamo l’universo, questo grande teatro in cui si svolge la nostra esistenza, riconoscendo la nostra responsabilità di trasformare la nostra vita in un’opera d’arte degna di questo palcoscenico cosmico.

L’uomo è un animale sociale, è vero, ma prima di tutto, l’uomo è un individuo, un essere unico e irripetibile, dotato di una sua specifica individualità che va rispettata e valorizzata. Come ogni individuo, ha il diritto e il dovere di scegliere il proprio cammino, di perseguire i propri obiettivi, di realizzare i propri sogni.

L’essere umano è un essere di relazione, ma è anche un essere di libertà. E la libertà, come diceva il filosofo Jean-Paul Sartre, “è ciò che si fa con ciò che è stato fatto a noi”. Questa è la lezione più grande che possiamo imparare dalla vita.

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