Codice Vittoria

Una serie di racconti illustrati che uniscono apprendimento, creatività e insight professionali

da | Apr 21, 2024 | Codice Vittoria | 0 commenti

Vittoria Sterling #9: radici e riflessioni

Le mie mani lavorano con precisione rituale, la lama scivola lungo le fibre del legno, staccando sottili riccioli che si disperdono al suolo. Intorno a me, il bosco vive la sua vita noncurante, un sussurro di vento tra i rami carichi di foglie, lo scricchiolio furtivo di qualche anima silvestre che mi osserva, nascosta tra le frasche.

Sotto il cielo plumbeo di un pomeriggio che sa già di sera, ogni mia inspirazione si mescola al profumo della terra umida, al resinoso pungente delle conifere. Il berretto di tweed mi ripara dal freddo pungente di questo inaspettato ritorno d’inverno.

Sono Vicky Sterling, sì, proprio quella che le riviste di settore dipingono come l’icona del successo nell’online marketing. La donna d’affari con un sorriso prismatico che rifrange ambizione in ogni scatto pubblicitario. Tuttavia, ciò che gli obiettivi acuti degli editori non catturano è il mio amore per l’abbandono della civiltà, per i pomeriggi immersi nei boschi della mia tenuta, dove le mie mani non digitano campagne, ma danzano con gli elementi primordiali del Bushcraft.

“Bushcraft, cos’è?” la domanda mi fu posta da un cacciatore incontrato lungo il tappeto di foglie morte di uno dei miei sentieri autunnali. “È la poesia del sopravvivere,” gli risposi, “è l’arte di assecondare la foresta, di scivolare tra le sue vene come sangue nuovo, vivificante. È saper leggere le tracce lasciate dai suoi abitanti, il sussurro del vento tra i rami come un antico linguaggio da decifrare”.

Mi guardò stranito.

Lo comprendevo, in fondo era colpa mia, una strana abitudine quella di voler disseminare comprensione in menti forse non sempre pronte a riceverla. Se il suo tempo tra gli alberi era scandito dai colpi di fucile, se la sua gioia si concretizzava nell’abbattere una beccaccia, come avrebbe potuto abbracciare il mio pensiero, filigrana delicata tessuta tra le foglie e le radure? No, non potevo pretendere che la mia visione, sospesa tra il rispetto e il dialogo con la foresta, trovasse casa in un animo ancora così rozzo.

Per me, il Bushcraft non è semplicemente sopravvivere, ma sfruttare le risorse che la natura elargisce con generosità silenziosa, per tessere un ponte tra l’istinto umano e la sapienza del verde. È ascoltare la melodia del mondo senza muri, è alimentare il fuoco non solo per calore, ma per connessione, per amicizia con l’anima selvaggia che ogni umano possiede, ma che pochi hanno il coraggio di riconoscere.

La lama scivola sul legno con un ritmo quasi musicale, modellando quel che sarà il mio bastone da trekking. Nel frattempo, Andrea, mio compagno di camminate nei boschi, si aggira lungo i margini gorgoglianti di un ruscello, in cerca di un guado. Siamo spesso soli in questa danza con la natura, eccetto per qualche cacciatore, anime erranti destinate a inseguire l’ombra della morte, o gli amanti dei funghi che, nei mesi della primavera, scrutano il sottobosco alla ricerca di tesori nascosti.

E poi ci sono i pellegrini, devoti viandanti del cammino di San Francesco, che lambisce la mia tenuta, un nastro di terra battuta che si snoda tra le querce come un antico percorso di fede.

Solo io e Andrea ci avventuriamo in questi sentieri per scoprire e raccogliere quel che il bosco offre. Cercando radici capricciose, rami tortuosi, ci imbattiamo in materiali primordiali dai quali nascono opere uniche. Il tavolino nel mio soggiorno ne è testimonianza; una radice di castagno trasformata, sotto le mie mani, in una scultura funzionale. Sopra di essa, il piano di legno massiccio di quercia, testimone di tempeste passate, ora riposa, ammirato e invidiato come un trofeo di un’esistenza passata fra i sussurri del vento invernale e la solidità della terra.

Andrea si fa strada verso di me, lo zaino bilanciato sulle spalle, un’espressione di genuina ammirazione negli occhi. “Tutto pronto, Vicky?”, chiede, posando lo sguardo sul bastone appena intagliato.

Con un cenno, chiudo il coltello e lo faccio scorrere nella sua fodera. “Sì, tutto a posto,” rispondo, il legno ancora tiepido tra le mani.

“Ma guarda un po’, sei un’artista. Come fai a trasformare un semplice ramo in qualcosa di così… vivido, in pochi istanti?” la sua voce tradisce un misto di curiosità e ammirazione.

Un sorriso si disegna sul mio volto mentre alzo lo sguardo verso di lui. “La pratica, Andrea, è l’incantesimo più potente. La pratica e un po’ di pazienza”.

Lui annuisce, poi sospira: “Beata te… Io non riesco a ritagliarmi il tempo”. Una nota di rimpianto colora le sue parole, un lamento sommesso per i momenti che vorrebbe rubare al quotidiano.

Non appena muoviamo i primi passi, il sentiero ci accoglie, la brezza ci accompagna. “Ecco, qui dovremmo attraversare”, indica Andrea. Davanti a noi, i sassi emergono dall’acqua come scalini posati da qualche antica divinità fluviale. “Saltiamo, allora”, aggiungo, con un tono leggero, avventuriero, il mio bastone saldo in mano pronta a seguire il mio compagno nella natura.

L’aria frizzante del bosco ci accoglie mentre ci addentriamo nel cuore verde, un labirinto naturale fatto di ombre e di luci danzanti. Andrea ed io, armati di occhi curiosi e di mani pronte a scoprire, procediamo tra i sentieri serpeggianti, sotto la volta degli alberi che parlano il linguaggio del silenzio.

Ogni tanto, la mia mano sfiora il suo braccio, un silente segnale che ho scorto qualcosa: un groviglio di radici affioranti dal terreno umido o la venatura particolare di un ramo caduto. Lui sa cosa fare, ci fermiamo, osserviamo, consideriamo. Non è solo un pezzo di bosco che guardiamo, è una potenziale creazione che valutiamo, una storia che potremmo raccontare attraverso il legno.

Sfidiamo rovi che s’aggrovigliano come difese poste dai custodi del bosco, aggiriamo piccoli scoli d’acqua, testimoni di piogge recenti e di terra viva. Sulla terra morbida, scorgiamo i segni di un balletto selvaggio: buche che le talpe hanno scavato in cerca di rifugio o di cibo, impronte di cinghiale che raccontano di fughe e di rincorse notturne. Andrea si china, studia le tracce con rispetto, senza mai disturbare la scena che si è presentata ai nostri occhi.

Più avanti, tra le foglie, ci attira l’immagine di un tumulto di piume. Le tracce di una tragedia avvenuta lontano dai nostri occhi, ma non dal nostro intuito: i resti di un colombaccio, la cui sorte è stata decisa sotto il pallido chiarore lunare da un predatore nascosto.

Le mie amiche da bar si sarebbero coperte il volto inorridite di fronte a simili scene di vita spezzata, ma la mia è un’anima temprata dalla foresta. La vita trascorsa nei boschi di Gubbio e i lunghi momenti assorbiti dalla pace di questi luoghi mi hanno insegnato a leggere senza sconcerto il libro aperto della natura, dove ogni capitolo narra la cruda realtà della sopravvivenza.

Nel bosco, ogni giorno è testimone di una lotta per l’esistenza, un insegnamento che si svela con ogni foglia che calpesto e con ogni alito di vento che ascolto.

“Vicky, guarda!”, Andrea si arresta e io con lui, seguendo il suo sguardo fino a una radice che emerge dalla terra come l’opera di un artista surreale. È curva, scolpita dalla vita e dalle intemperie, un’arabesca naturale di legno e di forza vitale.

“Eccolo”, mormoro, quasi un sospiro, il mio dito puntato verso quella radice che già nella mia mente inizia a prendere una nuova forma. “Questo è perfetto”.

Lui mi guarda, sorride e annuisce, conoscendo il fuoco creativo che quella visione ha scatenato in me. Forse sarà un nuovo pezzo d’arredo, forse un’opera d’arte. Ma in quel momento è semplicemente nostra, un dono del bosco che abbiamo l’onore di raccogliere.

Mentre il sentiero ci riconduce verso casa, il discorso di Andrea si snoda tra gli impegni futuri, la sua voce tesse un sottofondo di malinconia per i giorni che verranno. Tra le lamentele per il tempo che sfugge dalle mani come sabbia, mi coglie un senso di vuoto anticipato.

Con delicatezza rompo il silenzio. “Sai, Andrea, non ho mai voluto pesare sulla tua routine”, inizio. “Il nostro è un legame scolpito dal bosco, libero da richieste o aspettative. E per me va più che bene così”. Mi fermo, assaporando un ricordo dolce.

Un sorriso disegna i contorni del suo viso, richiamato da un passato che ancora ci lega. “Ricordi l’inizio di tutto questo, vero?”. La storia del suo cane, fuggitivo avventuroso che trovò asilo tra le mura della mia abitazione, e come quel ritrovamento trasformò lui, il padrone sconosciuto, in un amico fidato.

La gratitudine per quel salvataggio ha radicato un’amicizia laboriosa, da cui è germogliata una collaborazione di servizi e favori reciproci. Il suo  trattore che ha rivoltato la terra del mio orto e trainato i tronchi raccolti vicino al ruscello, è diventata simbolo della nostra alleanza.

“Forse, però, dovresti prenderti un momento per riflettere sul ritmo frenetico della tua vita”, gli dico, una pausa per lasciare che le parole si sedimentino.

Mi guarda, confuso e incuriosito. “Perché mi dici questo?”, chiede.

“Perché, Andrea, da quel poco che mi racconti, mi sembra che il tempo ti sfugga per le cose davvero essenziali. Non riesci a ritagliare spazi per te stesso, per cucinare qualcosa di buono, per perderti in un libro che ti appassiona, o per goderti semplicemente il silenzio di una passeggiata tra gli alberi. Hai già superato i cinquant’anni, e penso sia importante ora, adesso, che tu riesca a trovare un momento per riflettere e per cercare un nuovo equilibrio nella tua vita”.

Andrea annuisce lentamente, il suo volto riflette un’accettazione malinconica delle mie parole. “Hai ragione, Vicky,” risponde, il suo sospiro sembra carico del peso di mille giornate. “Ma la realtà è questa. Il lavoro mi assorbe completamente, dalla mattina alla sera. Vorrei potermi concedere del tempo per me, per dedicarmi a cose come l’intaglio del legno o la raccolta delle cicorie nei campi, come fai tu, ma così stanno le cose. E poi, non dovrei lamentarmi. Dopotutto, ci sono molti che non hanno nemmeno un lavoro. Io almeno sono fortunato ad averne uno, a guadagnare uno stipendio…”

“Ma non hai una vita”, lo interrompo con tono deciso. 

“Non è che non ho una vita, è solo che la mia vita è questa. Nient’altro”, ribatte con una sorta di rassegnazione.

“Ma tu credi davvero che io sia solo fortunata ad avere la vita che ho?”, riprendo, cercando di scuoterlo. “Pensi davvero che il destino abbia scelto per me una vita ricca di tempo libero e per te il contrario?”.

Lui appare confuso. “Non capisco”, ammette.

“Allora, ti sembra che io sia soltanto fortunata? O pensi che abbia fatto delle scelte precise per modellare la mia vita secondo i miei desideri?”. Lo sfido, fissandolo negli occhi con intensità.

“No, riconosco che sei una donna capace, che sai gestire bene il tuo lavoro e che, per fortuna, questo ti permette di avere anche del tempo libero”, risponde lui, cercando di trovare un terreno comune.

“Sciocchezze”, replico, alzando la voce per enfatizzare il mio disappunto. “Sono solo sciocchezze, Andrea. Tutti noi possiamo fare scelte che influenzano la nostra vita. Se continui a fare quello che fai, senza il piacere di quello che fai, significa solo che hai paura di esplorare strade diverse. Io non sono sempre stata così. C’è stato un tempo in cui ho dovuto fare una scelta coraggiosa, mettermi in gioco senza garanzie. Poteva andare male, certo, ma anche bene. E alla fine è andata bene. Ma non lo avrei mai saputo se non avessi avuto il coraggio di rischiare. Quindi, non si tratta di avere un lavoro che ti lascia tempo libero. Si tratta di fare scelte. Se continui a fare ciò che hai sempre fatto, otterrai sempre gli stessi risultati. Se desideri un cambiamento, devi agire diversamente. È chiaro fin qui?”.

Il suo sguardo fisso a terra. Silenzioso, cammina e ascolta.

“A vent’anni”, continuo, “abbiamo la libertà di esplorare, di sbagliare, di capire chi vogliamo essere. Ma a cinquanta, Andrea, non possiamo più permetterci il lusso di procrastinare. Ogni giorno trascorso a girare nella ruota del criceto è un giorno perso, un giorno in cui non viviamo veramente. Hai il dovere, oltre che il diritto, di cercare, di informarti, di esplorare nuove strade che possano liberare prima di tutto il tuo tempo”.

Il sentiero sotto i nostri piedi sembra riecheggiare i miei pensieri. “Hai bisogno di tempo per te stesso, per prenderti cura del tuo corpo, della tua mente e del tuo spirito. In ognuno di questi ambiti ci sono azioni che oggi trascuri. La sabbia scorre inesorabile nella clessidra, Andrea. Presto ti ritroverai a sessant’anni senza aver fatto il necessario per il tuo benessere fisico, mentale e spirituale”.

Le mie parole prendono un ritmo più urgente. “Hai bisogno di tempo per nutrirti in modo sano, non con le schifezze pre-confezionate che troppi consumano. Hai bisogno di tempo per muoverti, magari camminando nei boschi come facciamo noi. Hai bisogno di tempo per leggere un libro, ascoltare la musica che ti piace, vedere un film o un documentario che arricchisca la tua mente. Hai bisogno di tempo per riflettere, meditare, amare, pregare, per coltivare la tua spiritualità. Se continui a girare in quella ruota, stai annientando la tua vita”.

Faccio una pausa, mentre siamo quasi giunti nel cortile di casa mia. “Ora hai ancora la possibilità di vivere senza rimpianti, ma se lasci passare altri anni, qualcosa si perderà irrimediabilmente nel tuo corpo, nella tua mente o nel tuo spirito”. 

Lui sempre silenzioso. Io mi fermo. Lo guardo. Sorrido. E, abbraccaiandolo, aggiungo: “Ti ho detto questo perché siamo amici. Riflettici. Non hai bisogno di rispondermi ora. Non serve. Ma pensaci. A volte, anche gli alberi più grandi devono fermarsi ad ascoltare ciò che la foresta vuol dire loro”.

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Carlo D’Angiò

Autore, publisher e speaker di rilievo. Consulente e coach specializzato in blogging business e online marketing. Podcaster appassionato e pioniere nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale applicata al testo e alla grafica.

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