Codice Vittoria

Una serie di racconti illustrati che uniscono apprendimento, creatività e insight professionali

da | Nov 30, 2023 | Codice Vittoria | 0 commenti

Vittoria Sterling #3: al maneggio con Onice e la giovane giornalista

Le stalle del maneggio prendevano vita nel caldo pomeriggio. Lì mi trovavo, immersa tra la paglia fresca e il legno che raccontava storie d’epoche passate, a fianco del mio maestoso Onice. Amavo lasciare che le mie dita danzassero attraverso la sua criniera nera come la notte; lui, in un gesto che sembrava quasi di comprensione, inclinava il capo, abbassandosi al mio tocco. Era un momento di pura connessione, un dialogo silenzioso tra due spiriti affini, in cui la sua maestosità si piegava dolcemente al mio affetto.

Ricordo quella giornata di fine estate, cinque anni fa, come fosse ieri. I miei occhi si posarono su Onice per la prima volta in mezzo al caos del mercato dei cavalli, un turbine di suoni e colori che si intrecciavano come un caleidoscopio di vita. Era un mondo di maestose creature, ognuna danzante con una grazia che sembrava quasi sovrumana, quasi come se sfidassero le leggi della natura con ogni movimento.

In quella folla di nobili giganti, Onice emergeva con una presenza quasi surreale, una statua nera e vivente che incarnava un sogno trasformato in realtà. Il mio cuore iniziò a battere in sintonia con i suoi passi potenti, ogni battito riecheggiava un richiamo enigmatico, un mistero che ancora non riuscivo a comprendere del tutto. C’era qualcosa in lui, un’aura di forza e mistero che mi attirava irresistibilmente.

Era come se, in quel momento, una connessione invisibile si fosse creata tra noi, un filo sottile ma potente che legava il mio destino a quello di questa creatura nobile e fiera. Onice non era solo un cavallo tra tanti; era un simbolo, un portatore di sogni non ancora svelati, un enigma avvolto in una maestosa eleganza.

Vittoria e Onice

Ogni centesimo che avevo speso per Onice era il frutto di sforzi innumerevoli: ore di lavoro ininterrotto, notti insonni passate davanti a uno schermo che emetteva una luce fredda e impersonale, ogni decisione ponderata con l’accortezza e la strategia di un generale in battaglia. E ora, dopo tutto quel tempo, potevo finalmente permettermi questo frammento di sogno incarnato in una creatura vivente.

Quando chiesi il prezzo, la mia voce era ferma, ma i miei occhi, credo, tradivano una passione appena sbocciata, un fuoco appena acceso. “Per lei, signora, solo il migliore,” rispose il venditore, con un sorriso astuto che sapeva di segreti e intese tacite.

Non si trattava di un semplice acquisto, era qualcosa di molto più profondo. Era stato un patto, un accordo non detto tra due anime che si erano riconosciute l’una nell’altra. Onice non era solo un cavallo; era un compagno, un riflesso di ciò che ero – forte, indomito e libero.

Ora, tornando al presente, mi trovavo ancora una volta al suo fianco, sentendo la sua presenza come un promemoria tangibile di ciò che avevo conquistato e di ciò che ancora potevo diventare. Era un ancoraggio al mio passato, un faro per il mio futuro, un punto fermo in un mondo di incertezze.

“Bravo ragazzo,” mormorai dolcemente, lasciando che le setole della spazzola scivolassero sul suo manto lucido, una danza delicata che rifletteva la nostra armonia. “Oggi ci lanciamo ancora una volta contro il vento, vero?”.

Nell’angolo delle stalle, Martina, la giornalista, ci osservava con uno sguardo che oscillava tra curiosità e incertezza. Il suo taccuino era aperto ma sembrava quasi dimenticato. Di tanto in tanto, i suoi occhi si spostavano verso l’ingresso, quasi sperando in una fuga improvvisa da quell’ambiente così alieno al mondo che conosceva. Il suo sguardo passava dalla penna a me, un intreccio di ammirazione e una lieve frustrazione che si dipingeva sul suo volto.

“Non è proprio l’ufficio che mi aspettavo per un’intervista”, sussurrò più a se stessa che a me, una nota di disorientamento nella sua voce che lottava per emergere sopra il coro dei suoni della stalla.

Con un mezzo sorriso che non arrivava ai miei occhi, ancora fissi su Onice, risposi: “Ho detto a Marco che un’intervista sarebbe stata possibile solo secondo le mie condizioni. Qui, al maneggio, con Onice. Il tempo è una valuta preziosa, Martina, e il mio tempo libero è un gioiello raro”.

Martina annuì, il suo viso incorniciato da un’espressione di rassegnazione mista a rispetto. Era evidente che l’intervista fosse un compromesso delicato, una danza tra il desiderio di mantenere la mia routine e la pressione di concedere un’intervista a un magazine influente, per un vecchio amico che non era abituato a ricevere rifiuti.

“Vittoria,” iniziò Martina, la sua voce vibrante di un timore reverenziale celato sotto una patina di professionalità, “nell’era dell’intelligenza artificiale, quale ruolo prevedi per le donne nel marketing?” Le sue parole si libravano nell’aria, dense di odori di fieno e cuoio, come un ponte sospeso tra due mondi: il suo, tessuto di parole e inchieste, e il mio, un intreccio di progetti, conversioni, sogni e libertà. Ma nel mio mondo c’era anche la concretezza dell’essere, un contrappunto vibrante alle vanità e alle scemenze della mia epoca.

Mentre facevo scivolare il panno sulla sella lucente, non alzai lo sguardo, la mia attenzione era tutta concentrata sul gesto, su ogni movimento che rifletteva la mia filosofia. “L’intelligenza artificiale,” dissi con una voce calma ma risoluta, “è solo un altro strumento nel cassetto degli umani. La mano che lo impugna, quella decide il destino. Noi donne, come gli uomini, siamo gli autori di quel destino. Siamo noi a tenere la penna.”

Martina annuì, le sue dita volteggiavano sulla pagina del taccuino, cercando di catturare ogni parola, ogni sfumatura. Poi, con un tono carico di curiosità non dissimulata, lanciò un’altra domanda, come una sfida sottile. 

“Ma non temi che la macchina possa sostituire il tocco umano, quello che… diciamo, fa di te Vittoria?”. La sua voce era un filo sottile che tentava di sondare i meandri più profondi del mio essere, una ricerca di ciò che si nascondeva dietro la maschera di sicurezza e forza che mostravo al mondo.

Quella domanda mi strappò un sorriso involontario. Esitai un attimo prima di rispondere, mentre ero intenta ad aggiustare il morso. Un prurito fastidioso mi solleticava il naso, ma resistetti all’impulso di grattarmi per evitare di sporcare il viso con le mani unte. “Una macchina,” iniziai, la mia voce un mix di riflessione e certezza, “può emulare il tocco, ma non sa sognare. Non può alzare lo sguardo verso il cielo per contemplare l’infinito tra le nuvole, né può scoprire i segreti celati lungo un sentiero nascosto nel bosco. Quella, Martina, è l’essenza della nostra arte. Il marketing è arte.”

Mi fermai un attimo, soffiando via i capelli che mi cascavano sugli occhi; il mio focus era diviso tra Onice e la giovane giornalista. “Ed è un’arte profondamente umana”, continuai, mentre Onice scuoteva la testa, quasi in segno di assenso. “Si tratta di tessere sogni, di dipingere piccole rivoluzioni nel tessuto del mondo che ci circonda, di plasmare desideri e speranze. È un dialogo, un valzer tra l’immaginazione e la realtà”.

Le parole che avevo appena pronunciato sembravano avere un certo impatto su Martina, che rimase immersa nei suoi pensieri, assorta in una riflessione silenziosa. Notai come la sua penna si fermasse a mezz’aria, un segno che forse le mie parole avevano colpito un tasto sensibile. Io sospirai leggermente, impaziente. Dentro di me, un senso di urgenza cresceva, un desiderio di muovermi, di agire, piuttosto che restare lì a parlare.

Onice scalpitava, condividendo il mio desiderio di sfidare la terra sotto i nostri piedi.

Martina, con un accenno di sfida, lanciò una nuova domanda. “Molti sostengono che l’AI stia riducendo le capacità cognitive dell’uomo. In effetti, chiedendo a una macchina di fare cose per noi, se ne ricava che via via perderemo le capacità di fare quelle cose. Non credi?”.

Mi fermai: “Sai, Martina, ci sono state epoche in cui l’uomo doveva cacciare per mangiare e accendere fuochi per scaldarsi. Eppure, non vedo molti di noi che perdono il sonno per queste abilità perdute”. 

Ci sono state epoche in cui l’uomo doveva cacciare per mangiare e accendere fuochi per scaldarsi. Eppure, non vedo molti di noi che perdono il sonno per queste abilità perdute

“In che senso?”, balbettò la giovane giornalista.

“L’AI è uno strumento, come lo fu il fuoco per i nostri antenati. Cambia il modo in cui facciamo le cose, non quello che siamo”.

Poi, con un tono più serio, aggiunsi: “E se parliamo di capacità cognitive compromesse, forse dovremmo guardare ai comportamenti e alle scelte degli ultimi anni. L’umanità non ha aspettato l’AI per dimostrare la sua capacità di dimenticare, di ignorare, di distruggere. Pensaci, mia cara. Pensa agli ultimi 3 anni. La vera domanda è: come useremo questa nuova scintilla? Per accendere un fuoco che illumina o che brucia?”.

Ripresi a sistemare la sella, lasciando che le mie parole agissero sulla mente della mia intervistatrice.

“Un’ultima domanda,” osò Martina.

“Rapida,” risposi, il mio sguardo catturato dal sole che iniziava a scendere all’orizzonte, tingendo il cielo di sfumature arancioni e rosse.

“Credi che l’intelligenza artificiale possa un giorno sostituire la passione, l’istinto… l’umanità stessa?” La domanda di Martina appariva carica di un’ansia esistenziale che avevo già colto in altre persone sul tema dell’AI. Era un interrogativo che rifletteva non solo una curiosità genuina ma anche l’eco di una paura diffusa, forse un retaggio del “sentito dire”, un modo per sondare ciò che resta sconosciuto. Perché, riflettevo, quando si conosce davvero qualcosa, il tono delle domande cambia. Le domande che mi stava ponendo, quelle a cui stavo rispondendo, erano ancora intrise di quell’ignoranza, non ancora pronte a trasformarsi nei quesiti veri che emergono solo con la comprensione.

Mentre salivo in sella con un gesto fluido che mi era ormai naturale, mi soffermai un istante a riflettere. “L’intelligenza artificiale,” cominciai, “sta per rivoluzionare molto più di quanto la maggior parte di noi possa immaginare, specialmente qui in Italia. Conosco molti imprenditori che stanno ancora cercando di capire come integrare l’AI nelle loro attività. Ciò che si prospetta per i prossimi mesi, credo, sarà qualcosa di straordinario, di rivoluzionario. Un cambiamento di paradigma, sia a livello sociale che produttivo”.

Mi sistemai in sella, sentendomi parte di Onice stesso. “La passione ci guida,” continuai, “ma è la nostra umanità che ci definisce. L’intelligenza artificiale può indicarci un percorso, può suggerire infinite possibilità. Ma alla fine, siamo noi a scegliere quale strada seguire. È un viaggio che, anche se guidato dalla tecnologia, resta profondamente umano, intessuto di scelte, errori e trionfi che solo un cuore umano può davvero comprendere”.

Al galoppo

Con queste parole, schioccavo le redini e Onice si lanciava al galoppo, lasciandoci alle spalle una nuvola di polvere e una giornalista, forse un po’ confusa, con una storia da raccontare.

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Carlo D’Angiò

Autore, publisher e speaker di rilievo. Consulente e coach specializzato in blogging business e online marketing. Podcaster appassionato e pioniere nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale applicata al testo e alla grafica.

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