Codice Vittoria

Una serie di racconti illustrati che uniscono apprendimento, creatività e insight professionali

da | Nov 28, 2023 | Codice Vittoria | 0 commenti

Vittoria Sterling #2: la verità è un lusso per pochi

Se c’è una cosa che non sopporto sono le interviste, benché siano proprio quelle le occasioni in cui il mio portfolio si arricchisce di nuovi clienti alto spendenti. Non le sopporto perché sono oramai una farsa, un teatrino di vanità e di scemenze, dove tutto ciò che si dice è preconfezionato, incartato come un regalo che non sorprende più nessuno.

Come donna di successo, mi ritrovo spesso sotto i riflettori, chiamata a parlare non solo del mio lavoro, di quelle strategie che intrecciano il destino di marchi e persone, ma anche di quello che succede nel mondo. Come se il mio pensiero potesse essere una luce guida per quelle altre donne, quelle anime sognatrici che cercano una vita ricca di significato, di avventure, di realizzazioni.

Non mi sottraggo al confronto; non mi nascondo dietro un sorriso e un cenno del capo. Accolgo le domande, le interrogo con lo sguardo, ma dentro di me, in quella stanza segreta del pensiero, mi chiedo: esiste ancora qualcuno capace di formulare una domanda che risvegli l’intelletto, che scuota l’anima?

Ora, mi giunge voce che al maneggio, dove Onice, il mio fido compagno, mi attende con la pazienza di un santo, ci sia una giovane giornalista che vuole parlare con me di intelligenza artificiale. Scommettiamo che non saprà farmi una, dico una sola domanda che abbia anche vagamente il sapore di qualcosa di intelligente? Che non saprà sollevare il velo, spingere oltre la cortina di banalità che così spesso si annida nelle parole?

“Vicky, di questo passo, rischi di apparire arrogante, antipatica, rischi di allontanare il tuo pubblico,” così disse una mia vecchia amica di liceo, una di quelle amicizie che il tempo ha reso opache, durante una rimpatriata di classe. 

Vicky al bar con una vecchia amica

L’ennesima cazzata, pronunciata tra il tintinnio di calici di prosecco e sussurri di inciuci, in quel teatro di falsità che è il tavolo di un bar. Gente che parla, che blatera di cose che non conosce, una pratica così diffusa, così banale, ma non per questo meno irritante. Lo fanno tutti, sì, anche gli amici più cari, anche i fratelli per chi ha la fortuna o la sfortuna di averne, anche i genitori, figure che dovrebbero essere faro di saggezza ma che a volte si perdono nel mare della chiacchiera.

Mi sottraggo a questo gioco, a questo teatro dell’assurdo, con un savoir faire che è diventato la mia armatura, glissando l’argomento, allontanandomi fisicamente e mentalmente da quelle parole vuote. Ma non sempre la diplomazia è il mio scudo, non sempre posso scivolare via da quelle conversazioni. Talvolta, devo affrontare il mostro, smontarlo pezzo dopo pezzo, mostrare la vacuità di quelle parole, svelare l’ignoranza che si cela dietro quei sorrisi compiacenti.

Questo, però, mi ruba il tempo, quel tempo prezioso che scorre tra le dita come granelli di sabbia, irrecuperabile, inesorabile. Ogni minuto speso a smontare le scemenze, ogni secondo dedicato a disfare il groviglio di parole vuote e superficiali, è un momento sottratto alla mia vita, un momento che non tornerà più. Sono una donna di passione, un fuoco che arde con intensità. Quando decido di fare qualcosa, lo faccio con tutta me stessa, con dedizione totale, che sia una dissertazione o qualsiasi altra impresa. Ma per ogni sciocchezza a cui sono costretta a rispondere, per ogni banalità che devo sviscerare e mettere a nudo, c’è una parte di me che si consuma, che si perde in quel labirinto senza fine.

Ogni parola che devo spendere per affrontare il mostro dell’ignoranza e della banalità è un fiato tolto al mio essere, un istante che avrei potuto dedicare a me stessa, alle mie passioni, ai miei sogni. Ogni momento in cui devo indossare l’armatura della razionalità contro l’assurdo è un momento in cui il mio cuore desidera essere altrove, in sella a Onice, libera da queste catene.

Poi dicono che sono antipatica, che non comprendo la leggerezza, la superficialità del vivere comune. Vorrei dire mettetevi d’accordo: mi cercate per la mia natura controcorrente, per quella scintilla di diversità che porta traffico alle vostre pagine sterili. E poi vi lamentate che non comprendo la superficialità del vivere comune? Non vedete l’assurdità, l’incongruenza di questi vostri pensieri?

Pensateci, rifletteteci un momento: se fossi stata una di quelle anime comuni, una di quelle che annuiscono e sorridono, che galleggiano nella corrente senza mai deviare, pensate davvero che sareste qui, alla mia porta, a bussare ogni giorno, a elemosinare opinioni, consigli, a cercare quell’angolazione perfetta per un selfie accanto a me, per adornare i vostri Instagram di un pizzico di autenticità rubata?

Un selfie con Vittoria

No, è chiaro che se avessi navigato nelle acque tranquille dell’ordinario, non avreste mai incrociato il mio cammino. È la mia natura di anticonformista, è il mio spirito ribelle, la mia capacità di stare al di sopra e al di fuori del comune che vi attrae, che vi spinge a cercarmi. Eppure, vi scandalizzate quando questa mia essenza si rivela in tutta la sua franchezza, quando non mi adeguo ai vostri standard di superficialità?

Che strana commedia è questa? Mi cercate per la mia unicità e poi vi lamentate che non sono come tutti gli altri. Ma io non posso essere altro che me stessa, e se questo significa essere antipatica agli occhi di chi non capisce, così sia.

“È informata sul caso di Giulia Cecchettin? Cosa ne pensa del femminicidio in Italia che secondo le statistiche, nel 2023, sembra essere aumentato a 103 casi?”, fu la domanda scagliata contro di me in quel programma podcast, una domanda che risuonava come un’eco in una stanza vuota. Ricordo che fissai l’intervistatore, quell’uomo che all’inizio aveva mostrato un barlume di intelligenza. Avrei voluto ridere, un riso amaro, uno scoppio di ilarità che avrebbe potuto frantumare la fragile cornice di quella conversazione. Era una domanda così sciocca, così fuori luogo nel contesto di quell’intervista, una domanda che cercava di trascinarmi in acque che non erano le mie.

Vittoria intervistata in un podcast

Ricomponendo il mio ghigno in un’espressione più seria, decisi di affrontare quel mostro, quella creatura informe che si celava dietro la domanda. L’intervistatore aveva scelto di giocare quella carta, in diretta streaming, e ora doveva essere pronto a ricevere la mia risposta.

“Non conosco nei dettagli il caso della sfortunata Giulia”, iniziai, con un tono che cercava di bilanciare la gravità della questione con la mia personale distanza dalle notizie di cronaca, “Ho letto qualche titolo, ma non mi immergo nelle tragedie quotidiane. Se dovessi farlo per ogni anima innocente che viene strappata via, per ogni vita spezzata, dovrei abbandonare il mio lavoro, il mio mondo”. La mia voce era ferma, le parole fluivano come un fiume calmo ma potente.

“Per quanto riguarda il femminicidio, credo che la tua domanda nasconda un errore, o forse una menzogna. A te la scelta”. La mia sfida era chiara, diretta, un colpo dritto al cuore della sua questione.

“In che senso?”, chiese l’intervistatore, come se fosse stato svegliato da un sogno, forse per la prima volta realmente attento.

“Il femminicidio è l’omicidio di una donna per motivi di genere. E in Italia, nel 2023, secondo quanto riportato dal prefetto di Padova, il dott. Messina, i casi sono 40, in diminuzione rispetto agli anni precedenti. E gli uomini uccisi per motivi di genere, ne sai qualcosa?”.

“No”, rispose, la sua voce un filo tremante.

“Sono 35. Quindi, di cosa stiamo davvero parlando?”. La mia domanda planò nell’aria, un falco che cerca la sua preda.

Un silenzio pesante calò nello studio, un silenzio carico di significati non detti, di verità non esplorate. “E allora, di cosa stiamo parlando?”, ripetei, aprendo le braccia in un gesto che abbracciava l’assurdità della situazione, quasi volessi mostrare l’immensità dell’ignoranza che mi stava di fronte, l’abisso di scemenze nel quale cercavano di trascinarmi.

La pandemia, la guerra, il clima, il patriarcato, sono tutti argomenti che si trasformano in tormentoni mediatici, viziati dalla mancanza, ormai acclarata, di verità e buona fede. È come un copione già letto, uno schema che si ripete ogni sei mesi: gonfiano una notizia, approssimativa o addirittura falsa, la trasformano in un circo mediatico. Su questa base costruiscono politiche economiche, sociali, influenzano persino l’educazione nelle scuole. Poi, inevitabilmente, emerge la verità, che tutto era sbagliato, arrivano le sentenze, i giudizi della magistratura, ma i media si voltano dall’altra parte, fanno finta di niente.

Nel frattempo, le persone soffrono, muoiono, vivono in agonia per queste menzogne. Ma ai media, sembra non importare; la loro è una corsa sfrenata verso un obiettivo che non è più quello di informare, di educare, di illuminare. Un tempo, il giornalismo vendeva notizie, vendeva storie, ma quell’era è tramontata, svanita come fumo. Oggi, non vendono più nulla, incapaci come sono diventati nel loro mestiere. Ora, quello che conta, per loro, è seguire gli ordini, gli ordini che arrivano dai finanziatori occulti del sistema, quelli che tengono le redini, quelli che muovono i fili.

Si tratta sempre di soldi, naturalmente. I media, non essendo più in grado di vendere, sopravvivono grazie ai finanziamenti delle fondazioni. E all’interno di queste redazioni, vi sono persone ideologicamente forgiate per un certo tipo di lavoro, per un certo tipo di narrazione. Diventa così più facile per loro allinearsi agli ordini, intascare i soldi senza fare domande. E la folla, la grande, vasta folla, sembra credere a qualsiasi cosa venga loro propinata, inghiottendo storie senza verità come fossero dolci avvelenati.

Vittoria contro il mainstream

Questa è la realtà che vedo, una realtà distorta da chi dovrebbe invece illuminare i sentieri oscuri, una realtà in cui la verità è diventata un lusso, un miraggio nel deserto dell’informazione. E io, Vittoria Sterling, mi trovo a navigare in questo mare di menzogne, con la mia bussola puntata sempre verso la verità, anche se significa essere etichettata come antipatica, come ribelle, come una che non si allinea. Perché, alla fine, la verità è l’unica moneta che vale la pena spendere in questo teatro dell’assurdo che chiamiamo mondo.

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Carlo D’Angiò

Autore, publisher e speaker di rilievo. Consulente e coach specializzato in blogging business e online marketing. Podcaster appassionato e pioniere nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale applicata al testo e alla grafica.

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